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Tumori : Sei malato? Ora lo sai prima 03/06/2010 08:25 #51464

  • premastampi
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Sei malato? Ora lo sai prima

A Nottingham’ uno dei migliori atenei al mondo: il 60% dei suoi lavori sono considerati all’avanguardia


Nella palestra al piano interrato del Queen’s Medical Center due ragazzi di Pechino, Ma Quong e Lee Gum, giocano a ping pong aspettando la lezione di medicina, mentre la luce invade la vetrata che si affaccia sul prato.

Hanno 19 e 21 anni ed è esattamente alla Nottingham University che vogliono studiare. «Perché il futuro è qui», giurano. Niente grande Cina, niente India, niente California, ma il Campus elegante che corre sui 35 ettari del parco di Highfield. Querce secolari, strutture futuristiche, ristoranti e aule ordinate, costruite a pochi metri dalle palazzine in mattone rosso che ospitano gli studenti. «Se non trovi stimoli in questo posto è meglio che lasci perdere». La partita è finita, i due cinesi si infilano i libri sotto braccio. «Lo sa che cosa abbiamo scoperto a Nottingham?». Abbiamo.

La Scoperta, come la chiama Lee, è cominciata quando lui aveva sei anni e il professor John Robertson, esperto di tumori al seno decise, in collaborazione con dei colleghi dell’Università del Kansas, che voleva capire il momento in cui nei fumatori comincia a svilupparsi il cancro. Era il 1996 e la corsa finirà la prossima settimana. Ci hanno lavorato in 50, 25 americani e 25 inglesi. Robertson, a Chicago, alla riunione annuale della Società di Oncologia Clinica dirà più o meno così: basterà un test del sangue per scoprire l’insorgenza del cancro con cinque anni di anticipo, cioè nel momento stesso in cui le cellule si mettono in moto per dare vita al tumore e il sistema immunitario reagisce moltiplicando gli anticorpi, un segnale che prima gli scienziati non erano in grado di leggere. Il test che consentirà di prevedere il 90% dei tumori solidi. Rivoluzione vera.

Candidandosi virtualmente a vincere il terzo Nobel dell’Università di Nottingham, John Robertson, già negli Stati Uniti, affida il compito di spiegare il suo mondo a due suoi collaboratori, il professor Herb Sewell e la dottoressa Andrea Murray.
Il professor Herb Sewell, immunologo, è un uomo raffinato, colto, smodatamente curioso. Al Queen’s Medical Center è una specie di dio, la sua segretaria lo chiama «il Maestro», mentre il professor Robertson, dice di lui: «parlare con Herb è come parlare con me, un fratello e un grande scienziato». Lo stima, di più, si fida. Sewell ha un ufficio largo come la guardiola di un portiere di Roma, con un computer, la moquette blu, molte carte e una finestra bianca. Per cinque anni è stato il vice rettore dell’università, ma ora vuole tornare a insegnare. «Studio e ricerca. La chiave è tutta qui». Fa invidia.

Donazioni, finanziatori privati, industrie che chiedono la collaborazione per la ricerca e molto denaro pubblico. «Niente arriva a caso. Il 90% della nostra ricerca è frutto di collaborazioni internazionali e il 60% di questi lavori è all’avanguardia nel mondo. Ci sono test fatti apposta per valutare la nostra efficienza. Se non arrivano i risultati non arrivano i soldi, fortunatamente non è il nostro caso». Trentanovemila studenti sparsi tra l’Inghilterra, la Cina e la Malesia e il 26% di quelli che risiedono a Nottingham, 32 mila cioè, vengono da 150 paesi. «We are the only truly global university». Siamo la sola vera università globale. Bello slogan. «Non è mio, è del Times. Lo ho adottato».

Nel parco, di fianco al lago, due ragazze francesi si fanno interrogare da una compagna coreana prima di un esame. Hanno i capelli raccolti e la stessa certezza dei cinesi: «nessun posto è come questo». La retta annuale è di circa 3.500 sterline, ma gli studenti che riescono a ottenere borse di studio sono il 30%. Quante sono le donne, professore? «La maggioranza».

La dottoressa Andrea Murray è una donna sottile, con occhi azzurri che diventano acqua. Forse sulla quarantina, forse poco meno, ha capelli chiari e il pallore degli studiosi. Negli ultimi quindici anni ha dormito cinque ore per notte, il resto del tempo lo ha passato al Queen’s Medical Center. Suo marito non ha fatto una piega. «Perché avrebbe dovuto? Sa che lavoro per una causa giusta». Non ha figli, ma ne vuole uno, crede in Dio ma è certa che in questo caso il risultato sia soltanto frutto della ricerca. «Sono una scienziata, no?». Guadagna molto dottore? Sgrana gli occhi. Che razza di domanda è? «Se il problema fossero stati i soldi avrei scelto un’industria privata». Il senso della sua esistenza sta nella stanza di fianco, dove tre settimane fa ha incontrato un paziente che non sapeva di avere un tumore ai polmoni. Lo avrebbe scoperto tra cinque anni. Gli ha fatto il test e ha capito due cose: che lui si sarebbe salvato e che lei gli aveva dato una mano. E’ uscita dalla stanza e ha urlato: «Grande». Poi si è ricomposta e ha chiesto scusa, come se avesse commesso un peccato. Ha girato le spalle e ha detto sommessa, come una campana sott’acqua: vado a baciare mio marito.

Il paziente ha smesso di fumare. In tempo reale.

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